Ricevo da Alberto Berton, economista, tra gli organizzatori del convegno di presentazione del Manifesto di Brescia sull’agricoltura ecologica, il testo del suo intervento tenuto in quella occasione.

Mi sembra interessante, sia perché ripercorre la nascita dell’agricoltura biologica, sia perché, proprio a partire da quella  storia, introduce una critica alla deriva attuale del sistema del bio a livello nazionale ed internazionale.

Una buona lettura, insomma.

Pierpaolo

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L’agricoltura biologica: la situazione nel contesto italiano e globale
di Alberto Berton

Come ama ricordare Giorgio Nebbia citando Shakespeare, “il passato è prologo”. Seguendo questo prezioso insegnamento, per cercare di comprendere la situazione dell’agricoltura biologica nel contesto italiano e globale, prima di analizzare gli eclatanti dati quantitativi di crescita, pensiamo sia utile ripercorrere, seppur brevemente, alcuni degli eventi che hanno mosso la storia dell’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica nasce nel periodo tra le due guerre mondiale, come reazione contro i primi sviluppi dell’agricoltura industriale.
Nel 1913 venne inaugurata a Oppau, in Germania, la prima grande fabbrica per la produzione industriale dell’ammoniaca. Grazie al processo messo a punto dai due chimici tedeschi Fritz Haber (1868-1934) e Carl Bosch (1874-1940), denominato appunto il processo Haber-Bosch, per la prima volta si riuscì a sintetizzare in modo efficiente l’azoto, partendo dalle abbondantissime quantità di gas contenute nell’aria. La sintesi dell’azoto permise alla Germania di affrancarsi dalla dipendenza delle importazioni di salnitro cileno, necessario soprattutto per la produzione di esplosivi e di fertilizzanti azotati, la cui importanza per la fisiologia delle piante, insieme a quella di fosforo e potassio, era stata dimostrata da Justus von Liebig (1803-1873) nei primi anni ’40 dell’Ottocento. Le prime produzioni di ammoniaca dell’impianto di Oppau vennero destinate alla fabbricazione di esplosivi, ma nel corso della prima guerra mondiale l’azoto di sintesi venne massicciamente utilizzato dall’agricoltura tedesca1.
Nello stesso tempo negli Stati Uniti era iniziata la cosiddetta Golden Age of Agriculture (1910-1920), un periodo di grande prosperità per gli agricoltori americani grazie all’aumento della domanda interna e delle esportazioni verso i Paesi europei belligeranti. I prezzi dei prodotti agricoli crebbero più velocemente dei prezzi degli altri generi di consumi, dei beni strumentali e degli immobili, situazione che determinò un aumento massiccio della produzione agricola ottenuto trasformando le grandi praterie americane in monoculture cerealicole altamente meccanizzate.
Il massiccio riscorso alla fertilizzazione azotata in Germania e in altri paesi europei come Inghilterra e Italia, non tardò a manifestare danni al suolo (mineralizzazione, compattazione, perdita di ritenzione idrica) e al metabolismo delle piante (i cui cultivar erano inadatti ad alte concentrazioni di azoto nel terreno). Dopo la prima guerra mondiale la Germania soffrì di un calo drammatico delle rese agricole (fino al 40%) che solo alla fine degli anni ’30 ritornarono ai livelli pre-bellici.
Nelle immense campagne americane, alla Golden Age fece seguito prima la devastante crisi economica e sociale degli anni ’20 e, subito dopo, l’ancora più devastante crisi ecologica delle Dust Bowl, una lunga serie di tempeste di sabbia e polvere che, nel corso degli anni ’30, colpirono un’area di 40 milioni di ettari nelle Great Plains causando la migrazione di milioni di contadini. La siccità ciclica tipica dell’area interessata, unita alla lavorazione meccanizzata del terreno dedicato pratiche monoculturali che lasciavano scoperto il suolo durante il periodo invernale, furono le cause principali di questo fenomeno.
In questo contesto storico di crisi della nascente agricoltura industriale, si svilupparono così in Europa e negli Stati Uniti filoni di pensiero eterogenei accomunati dall’idea che il mantenimento della fertilità organica del suolo sia la prima condizione per la sostenibilità dei sistemi agricoli.
Fu dall’amalgama delle idee di questi diversi filoni che nacque l’agricoltura biologica, le cui origini normalmente vengono rintracciate nella scuola tedesca di biologia del suolo (Albert Bernhard Frank, Hermann Hellriegel, Hermann Wilfahrt) che aveva fatto luce sulle relazioni simbiotiche tra piante e batteri che permettono naturalmente di fissare l’azoto atmosferico nel suolo; nel movimento culturale tedesco della “Life Reform” collegato a quello americano della “Food Reform”; nel filone esoterico dell’agricoltura biodinamica (Rudolf Steiner, Ehrenfried Pfeiffer); nella scuola inglese dell’organic agriculture (Albert Howard, Robert McCarrison, Eve Balfour) che darà poi vita a Soil Association; nel gruppo di scienziati esperti di protezione del suolo, sviluppo territoriale e ecologia, denominato Friends of the Land, formatosi negli Stati Uniti a seguito della crisi delle Dust Bowl durante i “Dirty Thirties” (Edward H.Faulkner, Louis Bromfield, Aldo Leopold, Hugh H. Bennett).
La letteratura internazionale solitamente allarga l’elenco dei “pionieri” fino ad arrivare alla scuola francese dell’agriculture biologique (Claude Aubert) e a quella svizzera dell’agricoltura organico-biologica (Hans Muller, Maria Muller). Normalmente assente, nell’elenco suddetto, la tradizione scientifica dell’agricoltura biologica italiana che ha come padre indiscusso la figura dell’agronomo emiliano Alfonso Draghetti (1888-1960), direttore per oltre un trentennio della Stazione agraria sperimentale di Modena, la più prestigiosa istituzione agronomica dell’Italia unificata (il cui edificio, insieme a quanto ancora contiene, è lasciato oggi in stato di abbandono nell’attesa di essere venduto ai privati).
Alfonso Draghetti nel suo testamento scientifico, “Fisiologia dell’azienda agraria” del 1948, espone la sua concezione “organica” dell’azienda agricola come corpo (oggi si direbbe sistema) composto da parti attive (terreno geologico, suolo, coltivazioni, stalla, concimaia) interconnesse da circolazioni (flussi) di materia organico-minerale. L’obiettivo di una corretta gestione agronomica è la “perennazione” (sostenibilità nel tempo) dell’azienda agricola, capace autonomamente di generare un flusso costante di prodotti agrari e zootecnici per il mercato. L’ideale agricolo è quello dell’azienda mista latina, basata sulla rotazione di cereali e foraggere, sulla componente animale bovina, e sull’utilizzo accorto delle leguminose, del letame e del composto per ripristinare la fertilità del suolo.
A partire dagli inizi degli anni ’30, Alfonso Draghetti organizza un rigoroso piano di miglioramento nell’azienda sperimentale di San Prospero di Secchia, scelta appositamente per la situazione degradata del suolo, tramite il quale dimostra che, grazie ad una corretta gestione biologica dell’azienda, senza necessità di continui input artificiali esterni, la produzione di materia organica complessiva e di produzione vendibile più che raddoppia nel corso del quindicennio di sperimentazione.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale a tutti gli anni ’50, l’interesse per agricoltura biologica rimase confinato in ambienti marginali, e l’agricoltura contadina venne in gran parte travolta dal successo dell’agricoltura e zootecnia industriale che grazie agli sviluppi della genetica, della meccanizzazione, dei sistemi di irrigazione, della farmacologia e della produzione e utilizzo di pesticidi raggiunse dei risultati produttivi (immediati) miracolosi. Come è noto, questo incanto fu rotto all’inizio degli anni ’60 con la pubblicazione del libro della biologa americana Rachel Carson (1907-1964) tradotto in italiano con il titolo “Primavera silenziosa” (1962) che, denunciando l’uso indiscriminato degli insetticidi come il DDT, fece nascere il movimento di contestazione ecologica.
All’attacco contro l’agricoltura industriale seguì poco dopo quello contro la zootecnia industriale, che vide la sua espressione più compiuta nel libro del 1964 dell’attivista inglese Ruth Harrison (1920-2000), con prefazione della stessa Rachel Carson, intitolato “Animal Machines” che denunciò per prima volta la crudeltà dei nuovi metodi di allevamento industriale, come quello dei vitelli basato sull’ingrasso forzato con alimenti incompleti in gabbie di legno completamente buie, pensando in tal modo di aumentare la quantità di carne anemica. La denuncia della Harrison sugli allevamenti intensivi stimolò la redazione di uno dei primi rapporti pubblici sul benessere animale, il Brambell Report (1965) che venne poi preso come base per le successive legislazioni comunitarie in materia.
Alla fine degli anni ’60 il movimento ecologista e il movimento pacifista, convergenti verso la contestazione contro le grandi industrie chimiche produttrici sia di prodotti per l’agricoltura che di prodotti per la guerra, diedero un nuovo rinnovato impulso all’agricoltura biologica, il cui interesse si diffuse in tutto il mondo tra i giovani della generazione del ’68. Seguendo il sentiero dell’ inglese Soil Association, fiorirono in diversi paesi le prime associazioni del biologico come l’italiana Suolo e Salute, fondata nel 1969 a Torino da un gruppo di medici e agronomi tra cui ricordiamo il Prof. Francesco Garofalo, che sostanzialmente riposizionò l’agricoltura biologica italiana sul solco scientifico tracciato da Alfonso Draghetti. Nel 1972 venne poi creata l’International Federation of Organic Agriculture Movements (IFOAM) che creò la piattaforma comune per lo sviluppo dei primi standard per le produzioni biologiche condivisi a livello internazionale.
La crisi petrolifera del 1973 stimolò le prime analisi relative al problema della dipendenza del sistema agro-alimentare industriale alle risorse esauribili, analisi che (come quelle dell’entomologo americano David Pimentel e del giornalista scientifico inglese Gerald Leach) misero in luce non solo la maggiore efficienza energetica dell’agricoltura contadina e biologica rispetto a quella industriale, ma anche gli enormi sprechi che avvengono all’interno di tutto l’industrial food system (input agricoli, trasporto, produzione agricola, trasporto, trasformazione, trasporto, distribuzione, trasporto, preparazione) all’epoca ormai dominato, negli USA come in Inghilterra, dalle grandi aziende di trasformazione e di distribuzione, e dai relativi trasporti su gomma.
Dopo la fase di contestazione e di analisi, verso la fine degli anni’70, negli Stati Uniti come in Europa, si assistette al cosiddetto back-to-the-land movement, ovvero al fenomeno del ritorno alla terra che portò migliaia di ragazzi provenienti dalle città a trasferirsi nelle aree rurali abbandonate per fondare comunità agricole biologiche. Fu in questo contesto che in Italia, ad esempio, nacquero quelle che poi diverranno le realtà pionieristiche del biologico nazionale tra le quali ricordiamo la Cooperativa Alce Nero nelle Marche, la Cooperativa Il Sentiero e la Cooperativa Iris in Lombardia, la Cooperativa Valli Unite in Piemonte, la Cooperativa Ottomarzo in Veneto.
Contemporaneamente, a partire dalla prime esperienze di gruppi di acquisto, si crearono i primi modelli distributivi biologici ed ecologici, fondati su una forte condivisione etica e valoriale, nonché politica, come la Cooperativa Il Sole e la Terra di Bergamo e Scarabée in Francia à Rennes, che sarà poi determinante per la nascita della rete delle Biocoop, oggi la più importante rete distributiva di prodotti biologici in Francia basata su un modello cooperativo unico tra produttori, negozianti e consumatori.
Verso la fine degli anni ’80 le aziende agricole e i negozi del biologico si strutturarono e professionalizzarono, contemporaneamente fiorì una miriade di progetti distributivi specializzati, iniziò a manifestarsi un interesse più diffuso da parte dei consumatori per i prodotti biologici, sempre più apprezzati per le loro valenze salutistiche, etiche e ambientali. Si assistette inoltre alle prime sperimentazioni di vendita di prodotti biologici nelle catene di supermercati come Tesco e Sainsbury in Inghilterra. Contemporaneamente l’agricoltura biologica iniziò a destare interesse anche a livello di politica agricola europea, sia per le valenze ambientali sia per la presunta minore produttività rispetto all’agricoltura industriale, le cui eccedenze erano causa di sprechi e disequilibri giganteschi.
Fu così che nel 1991, a tutela dei produttori e dei consumatori confusi dal proliferare di standard nazionali e privati, nonché come base per il lancio di incentivi al settore agricolo, venne emanato il primo regolamento europeo sulla produzione e sull’etichettatura degli alimenti biologici di origine vegetale, il Regolamento 2092/1991. A quest’ultimo seguì il Regolamento 1804/1999 che disciplinò le produzioni animali biologiche e diverse modifiche al Reg. 2092/91 che, tra l’altro, introdussero un logo comunitario per il biologico.
Dal 1999 al 2001, a seguito dello scandalo della “mucca pazza” e del crescente timore per gli OGM, si assistette al fenomeno del “bio che boom”, ovvero all’aumento repentino della domanda causato anche dall’ingresso della grande distribuzione nel settore con lo sviluppo di prodotti a marchio proprio (in Italia prima Esselunga e poi a seguito Coop e le altre catane). In pochi anni (dal 1999 al 2004) le superfici a regime biologico nel mondo triplicarono, riuscendo a seguire la crescita del mercato. Dal 2007 in poi, si è allargato però sempre di più la forbice tra la crescita del mercato (che dal 1999 al 2013 è sestuplicato) e la crescita più contenuta e diversamente distribuita della superficie a biologico (che nello stesso periodo è soltanto quadruplicata) .
Dando uno sguardo alle statistiche più attuali (aggiornate al 2013) relativamente ai primi 10 Paesi in termini di superficie agricole a biologico, vediamo che l’Italia si posiziona al sesto posto come superficie complessiva, spiccando però come il paese con la maggiore percentuale della SAU a biologico (oltre il 10%), il maggior numero di aziende agricole biologiche (oltre il 20% delle quali però è a gestione “mista” biologica e convenzionale), il più grande valore di esportazioni (oltre un miliardo di dollari). In questo elenco notiamo inoltre che il valore della superficie media delle aziende biologiche italiane è il più piccolo (29 ha). Le aziende italiane del resto sono localizzate prevalentemente nelle aree collinari e montane, dove con il passaggio generazionale si è recuperata innovandola la tradizione dell’agricoltura familiare latina, da sempre molto vicina alle metodologie del regime biologico.
Sotto diversi aspetti si è posto però da qualche anno il problema della cosiddetta “conventionalization” dell’agricoltura biologica, ovvero della sempre più marcata acquisizione da dell’agricoltura biologica di caratteri tipici del sistema agro-industriale, quali il sempre più spiccato processo di globalizzazione (evidente dal disequilibrio tra la distribuzione mondiale dei terreni a regime biologico e delle vendite al dettaglio) , l’acquisizione di “marchi” biologici storici da parte dell’industria agroalimentare, la posizione di dominanza che la grande distribuzione sta acquisendo nel settore con i propri marchi commerciali “bio”, lo sviluppo di aziende biologiche industriali che, seppur conformate ai vari regolamenti nazionali, adottano una genetica agricola e animale selezionata per il convenzionale ed una gestione aziendale basata principalmente su input esterni (certificati).
Per fronteggiare il problema della “convenzionalizzazione” , nel 2005 IFOAM, attraverso un processo partecipativo piuttosto complesso, è giunta a definire e ribadire quelli che dovrebbero essere i “principi” fondamentali dell’agricoltura biologica, due di carattere scientifico (salute ed ecologia) e due di carattere etico (equità e cura).
In questo contesto estremamente critico per il futuro dell’agricoltura biologica, l’Italia, oltre a brillare per i dati di crescita, si è distinta, almeno in Europa, per i continui casi di frode che si sono susseguiti con ritmo incessante dal 2011 a giorni nostri (Gatto con gli stivali, Green War, Bio Bluff, Aliud pro oliio, Vertical Bio) e che hanno mostrato delle debolezze imbarazzanti nel sistema di controllo basato sugli organismi di certificazione privati, a loro volta controllati dall’Autorità pubblica.
Le variazioni quantitative dei cereali e delle colture industriali (mais e soia soprattutto) importate in Italia dai paesi dell’Europa non UE, tra il 2011 (anno dello scandalo del Gatto con gli Stivali) e il 2012, importazioni che sono passate in un anno da oltre 90.000 tonnellate a 2.000 tonnellate scarse, danno un’idea della gravità del problema che ha scatenato profondi conflitti tra Federbio (la principale organizzazione di rappresentanza del biologico italiano, espressione in particolar modo degli interessi degli organismi di controllo e dell’industria di trasformazione e di distribuzione) e l’ufficio agricoltura biologica del MIPAFF.
Sotto osservazione diretta delle autorità comunitarie, l’Italia ha dovuto così adottare, a partire dal 2012, delle profonde modifiche all’organizzazione del sistema di controllo biologico (come l’obbligo per le aziende ad assoggettarsi ad un unico organismo di controllo) e a dare l’avvio al Sistema Informatico Biologico pensato per gestire centralmente dati fondamentali quali l’elenco della aziende assoggettate al sistema di controllo biologico e i piani annuali di produzione. Parallelamente al lento avvio del SIB, non ancora operativo per la gestione dei dati molti sensibili relativi ai piani di produzione, Federbio sta cercando di implementare un sistema di controllo alternativo, basato su una piattaforma tecnologica estremamente sofisticata gestita su base privatistica.
In questa situazione estremamente critica è andata poi maturando la recente proposta di modifica del Regolamento europeo sul biologico, il cui obiettivo dichiarato è quello di rafforzare l’integrità del prodotto biologico mantenendo l’agricoltura biologica coerente con i propri principi di base.
E’ in quest’ottica che devono essere viste le ipotesi di modifica al sistema dei controlli in essa contenute, che vanno dal passaggio del focus ispettivo per le importazioni dalle analisi documentali di processo alle analisi chimico-fisiche dei prodotti, l’eliminazione dal sistema delle aziende miste (biologiche e convenzionali) e le varie deroghe nazionali, regionali e provinciali che permettono di utilizzare nel biologico materiali (come le sementi) e metodologie (come la monocultura) tipiche dell’agricoltura industriale.
Federbio, in Italia, si è subito dichiarata contraria a queste ipotesi di modifica e la Germania, insieme ad un piccolo gruppo di Paesi nord-europei, è riuscita a congelare la proposta sul cui proseguo o rigetto di dovrà decidere a breve.
Coerenza con i principi o adesione remissiva alle richieste sempre più pressanti dell’industria alimentare e, soprattutto, della grande distribuzione: è questo il problema cruciale che l’agricoltura biologica si trova oggi di fronte. In Italia, dove il dibattito internazionale sulla cosiddetta “convenzionalization” non ha destato particolare interesse, si sta facendo avanti l’idea che l’agricoltura biologica debba necessariamente porsi in sinergia con l’agricoltura industriale, abbandonando l’antagonismo tipico del passato, giudicato “ideologico”2. Del resto, il presidente di Federbio, Paolo Carnemolla, ha recentemente affermato: “Se vogliamo che tutti i consumi alimentari tendano al bio non possiamo prescindere da un’industrializzazione crescente”3.

Il problema che intendiamo sottolineare, in conclusione di questo scritto, è che l’adesione passiva ad alcuni dei caratteri del sistema agro-alimentare industriale (forte dipendenza da input esterni, globalizzazione, lunghe filiere di trasformazione, di impacchettamento e di distribuzione) non riflettono tanto un atteggiamento “laico” o “post-ideologico” quanto piuttosto un rigetto dei principi di base dell’ecologia, che è il vero fondamento storico e scientifico dell’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica, del resto, con i suoi 43 milioni di ettari di superficie coltivata, rappresenta oggi meno del 3% della superficie agricola coltivata del pianeta ed è quindi è ben lungi dal rappresentare un’alternativa globale all’agricoltura industriale.
Per questo crediamo che l’adesione ai principi piuttosto che al mercato, rappresenti la via più coerente con la storia dell’agricoltura biologica e, nel contempo, la via più promettente per costruire un futuro diverso e alternativo rispetto al sistema agro-industriale che, come si è detto nel Manifesto di Brescia, presenta delle crepe e delle vibrazioni pericolose e, aggiungo, sta vedendo il biologico ( e il commercio equo e solidale) solo come un modo per mascherare le proprie contraddizioni e, ovviamente, per generare profitti.

1-Il processo Haber-Bosch rappresenta ancora oggi il metodo prevalente di produzione dell’ammoniaca e quindi dei fertilizzanti azotati. Il processo consuma attualmente tra l’1 e il 2% della produzione annuale di energia a livello mondiale (dal 3 al 5% della produzione di gas naturale). Si stima che oltre un terzo della popolazione mondiale dipenda per la propria sussistenza alimentare da questo processo e che oltre la metà dell’azoto presente nei tessuti umani sia di derivazione sintetica.

2-Si legga al riguardo il recente articolo di Duccio Caccioni, dal titolo “Un biologico post-ideologico”: http://www.expo.rai.it/biologico-post-ideologico-caccioni/

3- “Il rischio industrializzazione nel mondo del biologico” di Paolo Carnemolla, 17/01/2014 in Pensieri e Parole: http://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/editoriali/18422-il-rischio-industrializzazione-nel-mondo-del-biologico.htm

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