Leggendo il Manifesto di Brescia, che verrà presentato nel corso di un convegno presso la Fondazione Luigi Micheletti che si terrà tra il 20 ed il 22 aprile prossimi, soprende come anche il mondo accademico ormai giunga a conclusioni simili a quelle che Campi Aperti e tutto il movimento per l’agricoltura contadina ormai da anni propongono.

Eh si, son soddisfazioni!

Poi leggi meglio e analizzi i promotori del convegno e… dispiace un po’ che alcuni degli organizzatori del convegno, dopo aver condiviso certe affermazioni, si facciano poi irretire dalla chimera Expo, senza comprenderne fino in fondo la perniciosità e, di fatto, contribuendo ad alimentare quel sistema che dichiarano di voler superare.

O, forse, proprio comprendendo bene in che gioco si sono infilati e scegliendo, quindi , la complicità?

Si pone, a noi che non siamo stati irretiti, credo, il problema di come (se è possibile) aumentare la diffusione di questi temi, soverchiando la potenza mediatica di soggetti più “rumorosi” che poi si rivelano utili collaboratori del sistema. Esche che nascondono l’amo del modello dominante per soggetti che vorebbero sfuggirgli.

Mentre alcuni, che capisco e in qualche modo mi affascinano, sono per adottare una linea di intransigente autosufficienza per evitare di farsi fagocitare – come successo agli aderenti all’Expo dei Popoli, per esempio – a me viene il dubbio che questo processo di progressivo isolamento in riserve omogenee per pensiero finisca col portarci al collasso insieme al resto del sistema. Non si tratta, cioè, sempre a mio personalissimo parere, di accrescere il numero (come, poi?) dei sostenitori della nostra visione alternativa, ma di farlo contemporaneamente alla sottrazione del maggior numero possibile di aderenti al modello dominante. Cosa che non si può fare se non andando a pescare nello stagno altrui, temo.

La crisi, chiaramente, potrebbe determinare un terreno fertile per l’attecchimento di proposte alternative. Oppure accelerare la degradazione e avvicinare il momento dell’implosione, economica ed ecologica, del sistema globale.

Il discrimine, credo, si giocherà nella capacità di chi pratica esperienze di resistenza reale, di includere i soggetti marginalizzati dal liberismo, prima che cadano nella trappola – preparata da tempo – del modello del consumismo per tutte le tasche, egregiamente esemplificato dai discount. E svelando l’amo di cui sopra al resto delle prede predestinate.

Ma, per compiere questa operazione, quale mediazione è accettabile? E’ possibile determinare a priori il livello di contaminazione sopportabile senza perdita di contenuti? Oppure le contaminazioni sono tutte inaccettabili ed è meglio tenersi alla larga anche solo dal pericolo di essere accomunati a qualcuno dei “nostri nemici”?

E il rischio di contaminazione è evidentemente reale, se si sceglie di spostarsi da uno specchio d’acqua ad un altro.

Per non parlare poi del pericolo rappresentato da coloro che governano il riempimento degli stagni: i politici. Si può aprire una vertenza con il gestore del rubinetto, senza che questo determini la fine dell’alterità che incarniamo?

Confesso di essere combattuto, ma, forse, i tempi bui che stiamo attraversando e che ci stanno conducendo al collasso sociale ed ambientale richiedono una pragmaticità che dobbiamo concederci anche a scapito di una parte della nostra identificabilità.

Forse, la via di uscita è rappresentata da una radicalità delle pratiche, affiancata dalla disponibilità al confronto con il resto dei soggetti politici attualmente sulla scena.

O è solo un’illusione auto-assolutoria?

Pierpaolo

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