Sarà più difficile per un governo trattare come terrorista un dirigente sociale che ha incontrato il papa, ha potuto parlargli della propria lotta e gli ha sentito dire che questa lotta è una benedizione per l’umanità. E sarà più difficile anche per un vescovo negare il suo sostegno alle rivendicazioni popolari sui temi della terra, del lavoro e della casa (ma anche della pace e dell’ambiente), dopo che il papa ha voluto personalmente incontrare i dirigenti dei movimenti di tutto il mondo per discutere di tali problemi. È per questo, e per molto altro, che l’incontro mondiale dei movimenti popolari che si è svolto in Vaticano dal 27 al 29 ottobre (di cui Adista, che ha avuto l’opportunità di seguirlo, ha parlato estesamente sul n. 39/14) è stato indubbiamente un successo. Un successo che avrà frutti duraturi, perché la collaborazione con il Vaticano continuerà, sotto forma di una sorta di “tavolo di dialogo” tra i movimenti e il papa. E un successo, soprattutto, perché, per molti rappresentanti dei movimenti popolari, l’incontro è apparso – come ci ha spiegato João Pedro Stédile del Movimento dei Senza terra del Brasile e di Via Campesina – «una legittimazione dei nostri diritti contro gli interessi delle borghesie locali». E ha offerto un’ulteriore spinta per la costruzione di una grande articolazione internazionale di tutti i movimenti popolari del mondo, in grado di fronteggiare quella che è realmente una crisi globale: economica, sociale, ambientale, politica. «La profezia di Marx – ha evidenziato Stédile nell’intervista concessa ad Adista che qui di seguito riportiamo – non è mai stata così attuale: lavoratori di tutto il mondo uniamoci!».

 

Che bilancio è possibile tracciare dell’incontro dei movimenti popolari in Vaticano?

Con il papa si è stabilito subito un clima di fiducia. Quando è venuto in visita in Brasile, per esempio, ha compiuto una serie di gesti che valgono più di molte parole, a cominciare dal fatto che, diversamente da quanto previsto nel programma originario, ha voluto recarsi in una favela. Ed è stato molto bello anche il fatto che abbia espresso il desiderio di andare a trovare dom Pedro Casaldáliga: si è persino informato su quante ore di volo ci volessero per raggiungere la sua diocesi. Poi, quando si è reso conto che era troppo distante, gli ha almeno voluto scrivere una lettera molto affettuosa.

Già lo scorso anno eravamo stati convocati in Vaticano per un primo incontro (il workshop “Emergenza Esclusi”, svoltosi in Vaticano il 5 dicembre 2013, ndr), allo scopo di offrire la visione dei movimenti sui modi in cui il capitale accresce la disuguaglianza sociale. Il dialogo era poi proseguito specificamente sui semi transgenici, anche in considerazione del fatto che in Vaticano esistono posizioni differenti al riguardo. Così abbiamo coinvolto un gruppo di scienziati per far giungere al papa dei sussidi che spero possano aiutarlo nella stesura della sua prossima enciclica sull’ambiente. È sorta quindi l’idea di organizzare un grande incontro dei movimenti popolari in Vaticano, un incontro tra il papa e un centinaio di dirigenti sociali legati a tre ambiti diversi (terra, lavoro e casa) indipendentemente dalle loro convinzioni religiose – non a caso i cattolici non erano la maggioranza -, con l’unica condizione che fossero veri dirigenti e che rappresentassero migliaia di lavoratori. Sono stati inoltre invitati 20 vescovi (ne sono venuti 17) che si sono particolarmente distinti nel loro appoggio alla lotta dei movimenti popolari.

L’incontro con il papa è stato importante in primo luogo rispetto a una simbologia di classe, perché per molti di noi dei movimenti popolari è apparso come una legittimazione dei nostri diritti contro gli interessi delle borghesie locali. È stato molto significativo sentirgli dire: quando parlo di terra, lavoro e casa, dicono che sono comunista. Il riferimento a Hélder Câmara è d’obbligo. E anche l’invito a Evo Morales nella sua veste di presidente della Conferenza mondiale dei popoli indigeni ci è sembrato un gesto politico importante, considerando che il presidente boliviano non gode della simpatia di vari vescovi boliviani. Tra noi, poi, vi era almeno una decina di dirigenti minacciati di morte: per loro la foto in cui stringono la mano al papa è una sorta di salvacondotto a protezione della loro vita. Abbiamo anche potuto condividere con il papa le nostre preoccupazioni riguardo alla presenza di gravissimi conflitti nel mondo, come è il caso di Kobane, perché ne parli durante la visita in Turchia, o a situazioni drammatiche come il caso degli studenti scomparsi ad Iguala, in Messico, durante un’operazione della polizia municipale e di bande di narcotrafficanti. Ed è con gioia che abbiamo poi ascoltato le parole da lui pronunciate, durante l’udienza generale del 29 ottobre, sulla scomparsa dei 43 giovani messicani.

Credo, infine, che sia stato un incontro positivo anche per il papa. Papa Francesco sa che deve operare cambiamenti all’interno della Chiesa e che troverà grandi ostacoli da parte dei settori conservatori. Ma sa che può contare su un importante alleato: i lavoratori organizzati. Sa che la Chiesa esercita un ruolo politico nella lotta di classe a livello mondiale e io sono pronto a sottoscrivere che il papa è dalla nostra parte.

 

Privilegiando il dialogo con il Vaticano, non si rischia di restare troppo ancorati alla Chiesa cattolica? Dopotutto i cattolici sono meno di un miliardo e mezzo nel mondo. Pensate di ampliare il dialogo anche alle altre tradizioni religiose?

Durante l’incontro è emersa chiaramente la necessità di investire le nostre energie nello sforzo di costruire da qui in avanti una grande articolazione internazione di  tutti i movimenti popolari del mondo. Si era tentato di farlo con il Forum Sociale Mondiale, attraverso la sua Assemblea dei movimenti sociali, ma non ha funzionato: si tratta di un formato che ha svolto un ruolo importante nella lotta ideologica contro il capitalismo, ma che con il tempo è andato esaurendo le proprie potenzialità. I movimenti popolari presenti all’incontro erano molto concentrati sul tema della terra, della casa e dell’economia informale, ma ci sono molte altre forme di organizzazione che dobbiamo coinvolgere. Noi di Via Campesina impiegheremo le nostre energie per costruire tale articolazione. E questo indipendentemente dalla Chiesa e dal Vaticano. Perché abbiamo la necessità di discutere i nostri problemi e di trovare soluzioni comuni per affrontare un nemico che è comune: il capitale finanziario e le transnazionali, le quali utilizzano gli organismi internazionali per legittimare i propri interessi.

In relazione al Vaticano, l’idea è quella di mantenere un “tavolo di dialogo”, anche se il concetto non è stato ancora ben definito. Il card. Peter Turkson, nel suo discorso finale, ha parlato di una “piattaforma”. È un bene che non abbia parlato di “consiglio”, perché la parola “consiglio” è ormai superata. Dunque, daremo continuità a questo incontro attraverso una specie di tavolo di dialogo fra i tre settori popolari e il Vaticano. E che non avrà a che fare con alcuna forma di potere o di burocrazia. In terzo luogo, è sorta durante l’incontro, sebbene non come proposta dell’intera plenaria, l’idea di convocare una riunione simile con altre tradizioni religiose. Ma sembra che vi sia una difficoltà: non tutte le istituzioni religiose sono verticalizzate come la Chiesa cattolica. Per esempio, rispetto ai musulmani, con chi si deve dialogare? In ogni Paese vi è una diversa corrente. Ma, per muovere un passo su questa strada, noi della delegazione brasiliana abbiamo già parlato di promuovere una riunione brasiliana in cui coinvolgere tutte le religioni.

 

Perché non sono stati invitati i teologi della Liberazione, proprio loro che hanno accompagnato così da vicino i movimenti popolari, anche pagando un prezzo molto alto?

Durante la preparazione dell’incontro, che è durata un anno, in Vaticano hanno detto chiaramente che non volevano che includessimo preti, religiosi e religiose nelle nostre delegazioni, perché sostenevano,  credo a ragione, che preti e religiosi hanno altri spazi di convergenza. D’altro lato, c’era la volontà politica di invitare i vescovi e dal Vaticano ci hanno chiesto indicazioni su quali siano i pastori che, in ogni Paese, accompagnano maggiormente i movimenti popolari. In generale, siamo rimasti molto soddisfatti dei 17 vescovi presenti: non hanno voluto alcun protagonismo, hanno tenuto un profilo umile e hanno ascoltato molto.

 

Ci sono state resistenze da parte dei movimenti rispetto all’idea di promuovere un incontro in Vaticano?

Dopo aver accettato, all’interno del Movimento dei Senza Terra, di coinvolgerci in questo processo, abbiamo presentato la proposta alla Via Campesina Internazionale e all’articolazione dei movimenti sociali dell’Alba, di cui fanno parte più di mille movimenti di tutta l’America Latina. All’interno della Via Campesina, chi ha espresso più, diciamo così, inquietudini, sono stati i compagni islamici: volevano capire bene il senso dell’iniziativa, ma poi hanno capito e sono venuti.

 

E le donne?

Le donne contadine non hanno espresso alcuna riserva, e infatti ve ne erano varie all’incontro. All’interno dell’Alba, il dibattito è stato maggiore, perché è uno spazio più plurale. E alcune resistenze, o inquietudini, sono state espresse dalle femministe, le quali hanno preferito non partecipare, per marcare una differenza rispetto a determinate posizioni assunte dal Vaticano.

 

Passando al Brasile, come interpreti l’attuale scenario politico brasiliano all’indomani delle elezioni che hanno portato a una vittoria di strettissima misura della presidente Dilma Rousseff?

Nel 2002 il voto a Lula era stato un voto di protesta contro il sistema neoliberista. Ma questa vittoria era stata ottenuta solo sulla base di un programma di alleanza tra tutte le classi. Era, insomma, un governo di conciliazione di classe che ha consentito di guadagnare a tutti, ma ai banchieri molto di più. Un governo centrato su tre punti: la difesa dello Stato di fronte al mercato, con un rilancio delle politiche pubbliche; l’impulso al settore industriale come motore di crescita dell’economia; la distribuzione di reddito a favore delle classi popolari. Questo programma, che viene definito neodesenvolvimentista, è stato messo in atto per dieci anni, consentendo al governo a guida Pt di ottenere il consenso per restare al potere. Ma ora è arrivato al suo limite. Il governo, infatti, non ha avuto la forza sufficiente per far fronte al capitale internazionale, così da controllare il tasso di interesse e il tasso di cambio, e ciò ha condotto nuovamente a un processo di de-industrializzazione. È da tre anni che l’industria non cresce, e che non cresce l’economia.

La presidente Dilma ha pensato che fosse possibile portare avanti il vecchio programma, ma questo programma è finito. Il governo, per esempio, ha portato dal 6% al 15% il numero di giovani che ha accesso all’università, ma c’è ancora un 85% che resta fuori. Tutti gli anni si presentano agli esami di ammissione universitaria 8 milioni di giovani per appena 1 milione e 600mila posti. Ciò vuol dire che più di 6 milioni rimangono esclusi ogni anno. I lavoratori hanno ottenuto alcune conquiste fondamentali, soprattutto grazie all’aumento dei salari e a un maggior livello di occupazione. Ma ci sono comunque 40-50 milioni di giovani che vogliono lavori più qualificati o che non sopportano più l’inferno in cui si sono trasformate le città brasiliane. È così che si spiegano le giornate di protesta del giugno 2013. Ma erano solo proteste e molti dei manifestanti si sono astenuti alle elezioni: sono 29 milioni i brasiliani che non sono andati a votare.

La presidente Dilma non voleva credere che la borghesia brasiliana le avrebbe fatto opposizione, eppure lungo tutta la campagna elettorale è restata al secondo posto nei sondaggi, superata prima da Marina Silva (la quale, però, ha perso consensi a causa della sua personalità ondivaga) e poi da Aécio Neves. Alla fine è riuscita a vincere di strettissima misura, ma al Congresso la destra può contare su un’ampia maggioranza. Si dice addirittura che sia un Congresso più conservatore che durante l’epoca della dittatura. Così ora la destra controlla il Congresso, il potere giudiziario, i mass media e ora mira anche a controllare il governo.

 

E cosa può fare allora il governo Dilma in questo quadro?

Il governo ha solo una soluzione: deve allearsi con i lavoratori e i movimenti popolari e operare i cambiamenti che la popolazione esige e che il progetto neodesenvolvimentista non ha permesso di realizzare. La destra che prima appoggiava il governo ora è all’opposizione in Parlamento e nella società: se il governo insegue l’illusione di ricomporre l’alleanza con le destre finirà male già durante il primo anno. E tutti i movimenti andranno all’opposizione. Se invece il governo sceglierà la strada dell’alleanza con i movimenti, la prima riforma che dovrà realizzare sarà la riforma politica del Paese. Perché questa potrà alterare i rapporti di forza nella società aprendo così la strada alle altre riforme strutturali: la riforma agraria, la riforma educativa, quella tributaria, quella urbana e quella dei mezzi di comunicazione. E questo potrà avvenire solo attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente parallela al Congresso eletto, in quanto quest’ultimo è ostaggio di appena 117 imprese, le quali hanno speso in finanziamenti ai politici ben 2 miliardi di dollari (una cifra inferiore solo a quella spesa negli Stati Uniti). Cosicché è necessario unire il più possibile le forze per ottenere la convocazione di un plebiscito sulla Costituente. Se poi il governo eviterà sia di allearsi con la destra sia di dare risposta alle rivendicazioni dei movimenti popolari, assisteremo a un lungo periodo di crisi e di instabilità politica. Ma bisogna essere ottimisti, perché la fase di apatia sociale sta terminando, come hanno dimostrato i giovani nel giugno del 2013. E se quello era un movimento di protesta privo di un programma, ora si tratta invece di discutere un programma per una grande alleanza tra i movimenti su proposte di riforma radicali. Occorre dunque stimolare la lotta sociale attraverso la creazione di un grande movimento di massa. E occorre stimolare un dibattito politico per trovare le soluzioni a quella che, per la prima volta, è veramente una crisi mondiale: economica, sociale, ambientale, politica. La profezia di Marx non è mai stata così attuale: lavoratori di tutto il mondo uniamoci! Ci attende insomma un periodo di intensa lotta politica. Per fortuna, possiamo contare su un grande alleato: la natura. La natura neanche il capitalismo può comprarla. E ogni volta che il capitalismo l’aggredisce, ne provoca anche una reazione, generando un problema ancora più grande. Ora tocca a noi rendere cosciente la società sul perché la natura reagisca in questo modo. Per esempio, la contaminazione provocata dall’uso intensivo dei veleni in agricoltura sta moltiplicando i casi di tumore. Ogni anno, in Brasile, si registrano 500mila nuovi casi di cancro: è il prezzo che il capitalismo ci impone producendo alimenti contaminati. Ma questa è una contraddizione che deve essere utilizzata per convincere le persone che quello del capitale è un modello di morte.

 

Come si spiega l’assenza completa della questione ambientale durante tutta la campagna elettorale?

Nessuna delle questioni relative ai problemi strutturali del Paese è stata affrontata. Non si è parlato della questione ambientale – non ne ha parlato neppure Marina Silva, in quanto è scesa a patti con il settore ruralista, ed è questo che le ha fatto perdere il voto dei giovani, perché si è rivelata ipocrita e opportunista -; non si è parlato della riforma agraria; non si è parlato della riduzione della giornata di lavoro né della precarizzazione dell’occupazione; non si è parlato dei diritti dei popoli indigeni né di quelli dei quilombolas. I grandi temi relativi alla necessità di riforme strutturali per il Paese non sono stati toccati. Non sono stati toccati dalla destra, perché questa era interessata a sfruttare il tema della corruzione per far passare l’immagine del Pt come un partito di ladri. E non sono stati toccati dalla sinistra, perché Dilma non voleva impegnarsi. Per fortuna, nella campagna per il secondo turno, per quanto questi temi abbiano continuato a restare fuori dal dibattito, è emerso chiaramente che, se Dilma non cercherà di allearsi con i movimenti popolari, il suo governo diventerà ostaggio delle destre.

 

Evo Morales ha detto in passato (per quanto il suo governo non sia certo privo di contraddizioni al riguardo) che i diritti della natura sono più importanti persino di quelli degli esseri umani, perché se non vengono garantiti i primi non potranno mai essere possibili i secondi. Si tratta di una questione talmente grave che dovrebbe precedere qualsiasi altra considerazione. Perché allora tale consapevolezza è ancora così limitata tra i movimenti popolari di tutto il mondo (esclusi ovviamente quelli ambientalisti)?   

È vero che non esiste una coscienza tra i movimenti popolari di questa centralità della questione ambientale. E tra i movimenti consapevoli della gravità del problema credo ci sia una lettura, che può essere giusta o sbagliata, secondo cui non si può affrontare la questione ambientale separatamente dal cambiamento del modello economico. E così, in un certo modo, diventano prioritari i temi legati al cambiamento generale, anche perché spesso, in Brasile, i movimenti che mettono al primo posto la questione ambientale finiscono per ridurla, per esempio, al problema della deforestazione dell’Amazzonia, che di certo è gravissimo, ma che non è l’unico: basti pensare ai danni provocati dall’uso dei veleni in agricoltura, che distruggono la biodiversità, o dall’allevamento bovino. Il fatto è che i movimenti devono maturare questa coscienza e questo non è immediato. Si tratta di un processo.

 

Claudia Fanti

Da Adista n. 40/14

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