Cecilia Marocco,
8 dicembre 2014

La domanda è sempre la stessa, quasi ogni realtà sociale prima o poi si pone il problema di come dare prospettiva alle lotte, di come crearepartecipazione attiva tra chi idealmente sarebbe pure d’accordo ma guarda ai movimenti con malcelato pregiudizio dimostrando diffidenza e/o disillusione.

La domanda se la fanno in molti dopo Genova, dopo il crollo di speranza che ha significato per tutt* il fallimento del Social Forum e, sebbene in misura minore, il movimento degli indignados del 2011 che in Italia ha avuto il suo apice nonché la sua fine nella mobilitazione del 15 Ottobre a Roma. Il fallimento più grande sta nella delusione di un mancato “altro mondo possibile”, da lì l’incapacità dei movimenti di ricreare intorno a se consenso e interazione. Da qui la necessità di ripartire da zero, dal basso, attraverso le pratiche e la costruzione di nuovi percorsi.

Dunque le risposte… ognuno prova a darne una, ma c’è anche chi non crede possano esistere, e forse hanno pure ragione; ma dato che pessimismo e realismo è meglio lasciarli a chi pensa che le cose non si possano cambiare, si vuole provare a seguire quel filo che, dall’interesse, porta al consenso poi partecipazione ed infine “comunità”. Pensando che quest’ultima possa essere una delle chiavi di un sempre più necessario cambiamento radicale.
E’ doveroso mettere “comunità” tra le virgolette perché dalla sua definizione dipende come la si costruisce.

Secondo il vocabolario è “l’insieme di persone unite tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni”. Questa definizione è pericolosa e fuorviante perché potrebbe implicare una chiusura e ristrettezza che necessariamente bisogna superare, o peggio l’unione forzata di individui sotto l’arbitrio di leggi e frontiere. Andrebbe specificata invece, in senso più Proudoniano, come l’insieme di persone che si sentono affini e per questo si riuniscono in comunità economicamente vitali con obiettivi condivisi, non isolate e quindi anti-identitarie, permeabili a chiunque voglia farne parte (fermo restando la condivisione degli obiettivi e ideali).

Una comunità implica anche la ridefinizione di un sistema sociale, ovvero un cambiamento radicale nei meccanismi dello stare insieme ad altre persone, eliminandone gerarchie e verticismi di cui sono spesso impregnati anche i movimenti.

L’esperienza collettiva come strumento per trasformare il quotidiano; quei pochi GAS (Gruppi d’Acquisto Solidale) che funzionano veramente ne sono un esempio felice quando non si limitano a cambiare gli usi negli acquisti, ma mettono in discussione le regole del sistema a 360°, la messa in condivisione di criteri comuni diventa impulso per un cambiamento che non si attua più a livello individuale, ma diventa collettivo.

Costruire comunità è uno dei capisaldi della campagna Terra Bene Comune che, come è già stato scritto altrove, passa attraverso l’autorganizzazione; ma deve avere una base solida per procedere e superare i limiti di un territorio, di un gruppo ristretto, di una cerchia che necessariamente deve allargarsi se a cambiamenti radicali si anela.

Tornando all’esempio dei GAS, la stragrande maggioranza è ormai diventata una individualizzazione dell’idea originale, urge un salto di qualità, l’ampliamento del ragionamento che a partire da una questione materiale e pratica (il cibo) sia in grado di criticare un intero sistema (il problema della grande distribuzione, dello sfruttamento del lavoro, della precarizzazione delle vite), arrivando a risposte concrete che possano spaziare dalle valutazioni sul giusto prezzo o l’importanza di sostenere una filiera corta, alla creazione di reti sui territori che scambino merci non in quanto tali ma in quanto veicoli di ideali e proposizioni concrete.

La costruzione di una comunità può nascere da una occasione ma non deve esaurirsi in essa, spesso ha origine da esigenze materiali e funziona se diventa fucina di idee, arricchimento culturale attraverso condivisione di pensieri, così come la sua contiguità non risiede in termini solo spaziali ma innanzitutto ideali; lo spazio può aiutare a creare un senso di comunità grazie alla facilità delle relazioni, ma è la condivisione profonda di idee che mantiene saldo il senso di appartenenza ad essa e proprio nella estensione sui territori può trovare linfa vitale affinché un gruppo che lentamente si accresce possa continuamente confrontarsi e scambiare esperienze.

Tante sono le possibili strade da percorrere per creare comunità, la creazione di un orto in un centro sociale ha incuriosito e dunque permesso di abbattere quel muro di diffidenza che regnava tra i cittadini del quartiere, ora quei cittadini partecipano ben oltre la gestione di un piccolo orto in città arrivando ad immaginare la gestione collettiva di terre per una autoproduzione che ha il sapore di reale alternativa al modello economico, crea reddito (diretto o indiretto) ma soprattutto unisce.

Quanto la comunità riesce a soddisfare i bisogni partendo da se stessa e senza delegare realizza un’altissima forma di autogestione, la diffusione sui territori è il volano per il moltiplicare le pratiche.

cafOpinioniCecilia Marocco, 8 dicembre 2014 La domanda è sempre la stessa, quasi ogni realtà sociale prima o poi si pone il problema di come dare prospettiva alle lotte, di come crearepartecipazione attiva tra chi idealmente sarebbe pure d'accordo ma guarda ai movimenti con malcelato pregiudizio dimostrando diffidenza e/o disillusione. La domanda se...Agricoltura biologica e mercati contadini per l'autogestione alimentare