Lo dico a mo’ di premessa: io sono un nonviolento, contrario alla violenza espressa in tutte le sue forme.

Detto questo, secondo me occorre, visti i fatti dei giorni scorsi, affrontare una scomoda ma necessaria ponderazione della violenza espressa in occasione di Expo 2015.

Da una parte i Black Bloc che hanno spaccato vetrine e incendiato auto per diverse centinaia di metri, facendo molto fumo e tanto rumore. Rumore tanto forte da coprire gli slogan gridati e le canzoni cantate dal resto del corteo all’interno del quale si erano inseriti. Ma soprattutto, tanto forte da oscurare i contenuti di quegli slogan e di quelle canzoni.

Tanto forte da coprire anche le voci che si sono alzate dalle altre manifestazioni nei giorni seguenti.

Nessuno, infatti, che abbia seguito tramite i media “convenzionali”, ha capito un accidenti del perché si sia tenuta una manifestazione il giorno dell’inaugurazione dell’Expo, se non per fornire l’occasione a qualche giovinastro vestito di nero per sporcare la pulitissima Milano. Ché, altrimenti, non avrebbe saputo dove sporcare, essendo detti giovinastri dediti unicamente a tale attività (come testimoniato dalla famosa intervista rilasciata da uno di questi, a volto scoperto e per un tempo infinito, nel corso di una manifestazione con i celerini ad un passo, ad un giornalista del TgCom24. Lui sì che ci ha messo la faccia! Anche se il sospetto che l’intervista sia un po’ farlocca, un po’ mi viene).

Dalla parte opposta, dentro i cancelli della fierona mondiale della magnazza, la rappresentazione di violenze perpetrate globalmente e in continuo ai danni di tanti esseri umani e del pianeta (l’unico, faccio notare, a nostra disposizione) su cui questi poveri esseri a due zampe si ostinano a vivere.

Ora, il paragone del livello di violenza espresso dai due soggetti (collettivi, ça va sans dire) citati è assolutamente incommensurabile.

Però, se i media prestassero un po’ di attenzione alle dimensioni dei fenomeni, sicuramente il premio Attila per la devastazione lo vincerebbe alla grande il raggruppamento interno ai cancelli.

Si, proprio quello infighettato e lucidato, che espone l’immagine di qualcosa che esiste solo nei deisideri e nei progetti di quei signori: un pianeta nutrito dai grandi brand dell’agroalimentare.

Quello in cui si beve coca cola e si mangia un hamburger o un cracker appena estratto dal suo cellophane, contenuto in un cartoncino, avvolto da una plastichina (ma noi siamo contro lo spreco, ovviamente!), magari spalmato di un omogeneizzato di carne in barattolo appena comprato in uno dei padiglioni dell’eccellenza del food made in ea… pardon, italy.

Quello in cui la frutta è sotto forma di succo, concentrato in uno stabilimento sulla costa brasiliana. Dove operai trasformano, con salari da fame, frutta raccolta nelle piantagioni, sottratte alla foresta amazzonica, da semi-schiavi, spesso irrorati, insieme agli alberi dai quali staccano i pomi, con principi attivi spesso banditi nell’occidente. Concentrato che poi viene trasportato per migliaia di kilometri (ma noi siamo contro lo spreco, badate bene!) con relativo consumo di carburanti fossili e aumento della CO2 in atmosfera, in un altro stabilimento industriale per essere diluito con acqua, sottratta alle comunità locali, per poi essere di nuovo reinviato via mare o aereo o camion (altra CO2) fino al magazzino di una qualche catena di supermercati. Qui verrà finalmente movimentato dai semi-schiavi nostrani. Gli addetti alla logistica assunti da sub-appaltatori dei sub-appaltatori. Quasi tutti immigrati, ricattabili, provenienti da un’africa depredata e nella quale gran parte della terra agricola non è più nella disponibilità degli abitanti di quei luoghi, in quanto accaparrata da qualche gruppo finanziario per specularci sopra, o da qualche paese lungimirante e pieno di danari per garantirsi il granaio il giorno dopo l’apocalisse.

Nonostante le signifcative perdite durante il trasporto (remember Triton?), di questa mano d’opera facilmente ricattabile, ne produciamo quasi più che di frutta da concentrare.

Ma questi sono solo esempi delle potenzialità del modello messo in vetrina ad Expo 2015.

A questi si possono aggiungere, se ci si volesse concentrare sul locale, le centinaia di ettari sottratti per sempre all’agricoltura per la cementificazione necessaria ad ospitare la fierona. E la precarietà, se non la schiavitù, legalizzata ad Expo per permettere a chi di dovere di guadagnare ancora un po’ di più. E i morti sui cantieri. E la ‘ndrangheta infiltrata. E le mazzette. E il debito che ci troveremo a pagare noi per gli anni a venire (perchè tutto si socializza, tranne i profitti, ovviamente).

Qualcuno, in un post su un social network, qualche giorno fa ha detto che “Expo non è il male assoluto, ma la fiera di tutto il male possibile”. Non era vero. Mancava qualcosa. Ce l’hanno messa i Black Bloc.

Ma anche senza, mi azzardo ad affermare che ce n’era già abbastanza.

Ppp p(---)Comunità in lotta per l'autodeterminazione alimentareLo dico a mo' di premessa: io sono un nonviolento, contrario alla violenza espressa in tutte le sue forme. Detto questo, secondo me occorre, visti i fatti dei giorni scorsi, affrontare una scomoda ma necessaria ponderazione della violenza espressa in occasione di Expo 2015. Da una parte i Black Bloc che...Agricoltura biologica e mercati contadini per l'autogestione alimentare