Il TTIP  non aiuterà l’agricoltura contadina, né la sovranità alimentare, ma solo le multinazionali. Alcuni giorni or sono, infatti, Fairwatch ha pubblicato un interessante rapporto dal titolo “Contro il TTIP, con i piedi per terra” in cui si analizzano le ricadute probabili dell’accordo di libero scambio sull’agricoltura, sul cibo e la sovranità alimentare, a discapito degli annunci entusiastici e propagandistici che circolano.

Leggendo il rapporto Fairwatch vien facile immaginare le ricadute e le tipologie di organizzazioni economiche che trarranno i maggiori benefici da una più facile circolazione di merci  tra le due sponde dell’oceano.  Il TTIP viene propagandato agli agricoltori come un accordo vantaggioso, in grado di rilanciare la produzione primaria e, in special modo per il settore oleicolo, vinicolo e quello marchi dop, igp, ecc., di offrire maggiori mercati di sbocco per il prodotto italiano.

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Così De Castro, in un articolo rilasciato ad Italia oggi, chiarisce in che cosa, secondo lui, consisterebbe questo vantaggio per l’agroalimentare italiano: “La bilancia delle esportazioni pende dalla parte europea essenzialmente grazie a vino, pasta, conserve, insaccati, olio. Esportiamo produzioni ad alto valore aggiunto dal Sud Europa, mentre importiamo materie prime, componente principale dei sistemi produttivi del Nord, in parte anche di quello tedesco. Ne consegue che i paesi del Sud hanno convenienza ad avere un atteggiamento offensivo per l`agroalimentare…“.

Il TTIP, infatti, sarebbe vantaggioso per l’industria agroalimentare perché consentirebbe maggiori esportazioni e più facili importazioni di prodotto. Da diversi anni a questa parte, infatti, la crescita delle esportazioni agroalimentari “italiane” comporta parimenti la crescita delle importazioni di materia prima, mentre la materia prima nazionale è costretta a prezzi che non coprono i costi di produzione.

E’ l’industria agroalimentare, e non la produzione primaria, ad avere interessi e vantaggi da un accordo di libero scambio. Una maggiore facilità di acquistare materia prima sul mercato internazionale è, per l’industria agroalimentare (industria di sua “natura” transnazionale), che usa trasforma e rivende materie prime che non produce, la possibilità di ricontrattare al ribasso i prezzi su tutto lo scenario internazionale. Questa revisione al ribasso dei prezzi ha per l’agricoltura contadina nazionale un effetto ancor più devastante e deprimente della già difficile situazione attuale.

Prendiamo il caso dell’olio d’oliva, il quantitativo d’olio extravergine d’oliva prodotto in Italia non è sufficiente a coprire il consumo interno ai confini dello stato. A fronte di una produzione che si attesta mediamente tra le 400 mila e le 500 mila tonnellate, il solo consumo interno si aggira tra le 600 e le 700 mila tonnellate di extravergine. Ma allora, perché i produttori hanno difficoltà a vendere il proprio prodotto sul mercato locale?

La presenza nella GDO di prodotto a prezzi bassi ne è la causa prima e in molti scelgono il prodotto della GDO in offerta o di prezzo. Per ottenere questi prezzi particolarmente concorrenziali, però, l’industria agroalimentare non compra necessariamente sul mercato locale, ma principalmente in Spagna, Tunisia, Grecia e rivende sia in Italia e sia all’estero. La conseguenza è che il prodotto italiano, che non sarebbe sufficiente neanche per il mercato interno, resta invenduto o venduto sotto-prezzo.

Secondo il ministro De Castro, gli olivicoltori italiani (grazie al TTIP) potranno sperare di vendere il proprio prodotto negli Stati Uniti (non in Italia dove non sarebbe sufficiente neanche per una metà degli italiani): la terra delle opportunità. Gli olivicoltori italiani che volessero vendere direttamente il proprio prodotto, secondo il ministro, dovrebbero andare a vendere negli Stati Uniti e lasciare il campo libero in casa all’industria agroalimentare, oppure svendere la produzione all’industria a prezzi internazionali.

La crescita del “made in Italy” nel comparto dell’olio extravergine d’oliva, in altre parole, da tempo ormai, utilizza prodotto importato dall’estero, confezionato per essere rivenduto. Mentre, la presenza sul mercato interno di merce più economica deprezza il prodotto locale ad un valore non remunerativo per il prodotto nazionale. L’agricoltura contadina subisce così la concorrenza sleale dell’industria agroalimentare in casa e, per giunta, dovrebbe anche liberare il campo vendendo all’estero, oppure chiudere baracca e burattini.

Da anni, a fronte di una crescita continua delle capacità commerciali dell’industria agroalimentare, la produzione olivicola ha avuto un andamento decrescente e molti oliveti versano in stato di abbandono; stato di abbandono che, tra parentesi, è anche uno dei motivi (oltre all’andamento climatico) dell’eccezionale ondata di mosca delle olive che ha colpito gli oliveti italiani nella scorsa annata.

Per rendere economicamente vantaggiosa la produzione interna, caratterizzata da un deficit competitivo legato a costi di produzione maggiori e prezzo di partenza più alto degli altri, ci si è sperticati a spingere gli agricoltori sulla qualità, dop, igp e certificazioni biologiche, con l’obiettivo di creare una nicchia di mercato per l’olio italiano e orientare i produttori verso il mercato estero. Ma questa politica commerciale illusoria (il presso medio dell’olio esportato verso gli Stati Uniti nel 2013 è stato di € 3,74 al kg) non ha fatto altro che continuare a favorire le multinazionali dell’olio, a scapito degli olivicoltori, tant’è che la produzione olivicola di casa non solo non è cresciuta, ma si è contratta progressivamente fino ad arrivare al minimo storico di quest’anno, complice la mosca e l’andamento climatico.

L’olio prodotto in Italia, grazie al TTIP, forse sarà venduto in giro per il mondo – magari sottocosto e a spese dei piccoli produttori – ma solo per pubblicizzare il marchio italia e attrarre i consumatori d’oltre oceano con l’effetto di ridare smalto alle multinazionali dell’olio, imprese transnazionali interessate solo all’acquisizione del marchio italia.

Ma perché produrre olio in Italia costa più che dalle altre parti? Il costo di produzione non è una variabile solo esterna: la forma che l’organizzazione olivicola ha, pone condizioni che fanno la differenza sul costo di produzione. Far cadere le olive sui teli, raccogliere a mano, con abbacchiatori, scuotitori o macchine scavallatrici produce un prodotto che ha qualità differenziate e costi eterogenei. Il lato esterno del costo di produzione è però molto importante, e se ci si confronta sul mercato internazionale, questi fattori giocano un ruolo cruciale nella competizione. Costi di sicurezza, energetici, tasse, fattori ambientali concorrono a formare il costo finale, senza che l’olivicoltore abbia il potere di far pesare queste differenze.

Se questo è il quadro in cui si muove l’olivicoltura italiana, o ci si autosfrutta e si produce per l’industria agroalimentare rincorrendo un aumento di produzione a fronte di un contenimento dei costi “per restare sul mercato”, sfruttando e mettendo in pericolo se stessi e i beni comuni con il rischio dell’inquinamento, del danno ambientale da pesticidi e concimi, oppure si sceglie una produzione adeguata, rispettosa e sostenibile per l’ambiente e finalizzata alla filiera corta, alla vendita diretta nel territorio, il più prossimo possibile.

Dal punto di vista della sostenibilità ambientale e della sovranità alimentare, quindi, la produzione locale di olio dovrebbe crescere, almeno fino a coprire il fabbisogno interno. Bisognerebbe puntare ad aumentare la produzione oleicola, costruendo condizioni di vantaggio per il prodotto locale venduto sul mercato interno, anche apponendo, li dove fossero necessarie, barriere tariffare e organizzative in grado di regolare i prezzi su un giusto grado di remunerazione del prodotto locale. Se la produzione deve crescere c’è bisogno che il processo sia remunerativo e il TTIP va essenzialmente nella direzione opposta.

Ecco perché il TTIP non aiuterà gli olivicoltori italiani!

 

alp

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